La speranza

La speranza

domenica 13 aprile 2014

Verso modelli post-capitalistici
Alla ricerca di modelli alternativi all'ipercapitalismo per una società più giusta ed equa

Diagnostica:
I fondamentali: le grandi patologie: LA PESTE DEL XXI° SECOLO

-LA PRECARIETA’ Nei Paesi Sviluppati del Mondo Occidentale -


“Quando tutti, in ogni momento, sono vulnerabili e incerti su ciò che il giorno seguente può recare con sé, sono la sopravvivenza e la sicurezza – e non una catastrofe improvvisa – ad apparire come un’eccezione; anzi un miracolo che sfida la comprensione dei normali esseri umani e che, per essere operato, richiede una preveggenza, una saggezza e una potenza operativa sovrumana (...)
(..) Nella media delle società moderne, la vulnerabilità e l’insicurezza dell’esistenza e la necessità di perseguire attività vitali in condizioni di incertezza acute e irrimediabile sono garantite dal fatto che queste attività vitali sono esposte alle forze di mercato.
(Zygmunt Bauman – Vite di scarto)





Sono passati più di due secoli dalla “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino”  (1789) ed oggi il motto “Liberté, Egalité, Fraternité mi pare di fatto svuotato del suo significato profondo, privato di forza, divenuto lettera morta:
·         la “Liberté”  più che per l’uomo e per il cittadino si è realizzata compiutamente per il capitale che si muove alla velocità della luce, da una parte all’altra del pianeta  in cerca di affari, profitti o rendite;

·         l’ ”Egalité” si è frantumata, sbattendo contro l’enorme muro dell’esclusione, del pregiudizio e della crescente disuguaglianza  economica;

·         la “Fraternité” è rimasta rannicchiata e relegata ad ammuffire in qualche cassetto di buone intenzioni di qualche movimento laico o  religioso e, comunque, ha fatto ben poca strada.


Giungo a queste conclusioni osservando l’e-voluzione (o meglio  in-voluzione) del mondo del lavoro nel sistema post-moderno ipercapitalistico.


Principi di riferimento di un mondo che fu


Senza nessuna pretesa di poter spiegare il profondo processo di trasformazione del mondo del lavoro nell’attuale sistema economico, politico e sociale, credo che valga la pena iniziare considerando alcune dichiarazioni e principi che sono stati affermati nell’Occidente a partire dalla fine della II^ guerra mondiale.
Possiamo iniziare, ad esempo con la “Dichiarazione riguardante gli scopi e gli obbiettivi dell’Organizzazione internazionale del lavoro, adottata dalla Conferenza internazionale del Lavoro di Filadelfia del maggio del 1944, in cui si riaffermavano i seguenti principi fondamentali:

<<(a) il lavoro non è una merce;
(b) le libertà di espressione e di associazione sono condizioni essenziali del progresso sociale;
(c) la povertà, ovunque esista, è pericolosa per la prosperità di tutti;
(d) la lotta contro il bisogno dev’essere continuata in ogni paese con instancabile vigore ed accompagnata da continui e concertati contatti internazionali nei quali i rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, in condizione di parità con i rappresentanti governativi, discutano liberamente e prendano decisioni di carattere democratico nell’intento di promuovere il bene comune.>>

e  aggiungeva:

(...) <<La Conferenza riconosce il solenne impegno da parte dell’Organizzazione internazionale del Lavoro di assecondare la messa in opera, nei vari paese del mondo, di programmi atti a realizzare:
(a)  la garanzia d’impiego e di lavoro, nonchè l’elevazione del tenore di vita;
(b)  l’impiego dei lavoratori in occupazioni in cui essi abbiano la soddisfazione di mostrare tutta la loro abilità e conoscenza e di contribuire per il meglio al benessere comune;
(c)  la messa in opera, per raggiungere questo scopo, con garanzie adeguate per tutti gli interessati, di possibilità di formazione professionale e di mezzi propri a favorire il trasferimento di lavoratori, ivi comprese le migrazioni di mano d’opera e di coloni<,
(d)  la possibilità per tutti di partecipare equamente ai benefici del progresso in materia di salari e rimunerazioni, e di avere un minimo di salario che permetta di vivere a tutti i lavoratori. 

(...omissis...) La Conferenza afferma che i principi contenuti in questa Dichiarazione sono pienamente applicabili a tutti i Paesi del mondo e che – mentre il modo di applicazione deve essere determinato tenendo conto del grado di sviluppo sociale ed economico di ciascun popolo – l’applicazione progressiva dei sopraddetti principi ai paesi che non sono ancora indipendenti o che non hanno ancora raqggiunto un livello che consenta di governarsi da sè, è materia che interessa l’intero mondo civile.

…per inciso, nei principi fondamentali  della Costituzione Italiana si afferma:

<<l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro....(art .1) ...
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impedisocno il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3)>>

Nella “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo” (1948) - proclamata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, agli articoli 23, 24 e 25 - possiamo leggere:

(… omissis)
Articolo 23
1) Ogni persona ha diritto al lavoro, alla libera scelta del suo lavoro, a condizioni eque e soddisfacenti di lavoro e alla protezione contro la disoccupazione;
2) Tutti hanno diritto, senza discriminazione, ad un salario uguale per lavoro uguale;
3) Chi lavora ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente, che assicuri a lui ed alla sua famiglia un'esistenza conforme alla dignità umana e integrata, se opportuno, da ogni altro mezzo di protezione sociale;
4) Ogni persona ha diritto di fondare con altri dei sindacati e affiliarsi a dei sindacati per la difesa dei suoi interessi.
Articolo 24
Ogni persona ha diritto al riposo e allo svago, in particolare ad una ragionevole limitazione della durata del lavoro ed a vacanze periodiche pagate.

Articolo 25
1) Ogni persona ha diritto ad un livello di vita sufficiente ad assicurare la salute e il benessere suo e della sua famiglia, specialmente per quanto concerne l'alimentazione, l'abbigliamento, l'alloggio, le cure mediche e i servizi sociali necessari; ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, di malattia, d'invalidità, di vedovanza, o negli altri casi di perdita dei propri mezzi di sussistenza in seguito a circostanze indipendenti dalla sua volontà (… omissis).

 

Sono passati più di cinquant’anni da allora, molte cose sono profondamente cambiate e non certo in meglio, anzi...

 

I cambiamenti strutturali: globalizzazione e ri-mercificaizone del lavoro

 

Jeremy Rifikin, nel suo saggio[1]  “La Fine del Lavoro”, individua una delle maggiori cause della prodonda trasformazione della vita del lavoratore (quando il lavoro c’è).

 

Era il 1995 quando affermava:

<<Oggi, su scala globale, la disoccupazione ha raggiunto il livello più elevato dai tempi della Grande Depressione degli anni Trenta. Nel mondo, più di 800 milioni di persone sono disoccupate e sottoccupate. Questo numero è probabilmente destinato ad aumentare ulteriormente negli anni che ci separano dall’inizio del nuovo millennio, poichè milioni di individui si affacceranno per la prima volta sul mercato del lavoro per ritrovarsi senza alcuna possibilità di occupazione e molte saranno le vittime di un’innovazione tecnologica che sostituisce sempre più velocemente il lavoro umano con le macchine in quazi tutti i settori dell’economia globale. (...) L’era dell’informazione è iniziata. Negli anni che ci attendono, tecnologie software sempre più sofisticate porteranno la nostra civiltà sempre più vicina al mito di un mondo senza lavoratori. (...) Oggi, i tre tradizionali comparti dell’economia  - agricoltura, industria e servizi – stanno vivendo uno spiazzamento tecnologico che spinge milioni di persone nelle liste di disoccupazione.>>

 

Rifkin si era concentrato principalmente  sul fattore tecnologico e sulle nuove forme di produzione leggera e just in time come principali cause di disoccupazione o sottoccupazione, nel frattempo altre cause si sono aggiunte e moltiplicate per rendere più precaria la vita  lavorativa e la vita delle persone in generale.

 

Abbiamo avuto infatti:

·  la crescente competizione su scala mondiale e la globalizzazione con le sue delocalizzazioni produttive e global supply chains;

·        la disponibilità di miliardi di persone nei paesi emergenti a lavorare con basse tutele, e con salari che sono frazioni dei salari medi dei “paesi sviluppati”;

·       le bolle tecnologiche, immobiliari e finanziarie che hanno contribuito non poco a rendere insostenibile i modelli di sviluppo fondati sul dogma della crescita;

·        la Grande Recessione del 2007 (e che perdura ancora in molti paesi).

 

Conseguenza di ciò è che  i principi e la legislazione che abbiamo richiamato sopra sono stati progressivamente spiazzati o neutralizzati dalle nuove regole del gioco del  mercato globalizzato  e dai nuovi miti, in particolare da quello della flessibilità.


Così afferma Luciano Gallino[2]:


<<Di là dagli argomenti di solito addotti in nome della necessità di “modernizzare l’economia”, la richiesta da parte delle imprese di aumentare la flessibilità del lavoro persegue due scopi principali. Il primo è quello di ridurre il costo diretto e indiretto del lavoro, adeguandolo il più strettamente possibile all’andamento della produzione e/o vendite, previsto o rilevato, nel corso dell’anno, della settimana, e in certi comparti produttivi perfino del giorno. Ciò al fine, si afferma esplicitamente o si lascia intendere, di poter reggere alla competizione internazionale>>

 

Sempre Gallino, trattando della globalizzazione dei mercati e delle catene di fornitura e produzione, dice:


<<(...) Si creano così catene di commesse e sub-commesse reticolari che possono comportare l’intervento di numerose imprese, localizzate talora in dieci o venti paesi differenti, per ricomporre alla fine l’unità del processo produttivo. Ciascuno dei componenti della rete, in quanto è sottoposto al rischio di non vedersi rinnovare a breve termine una determinata commessa o fornitura, reca un interesse oggettivo a utilizzare la maggior quota possibile di lavoratori discontinui, intermittenti, a tempo determinato, in affitto, con contratti di breve durata; di lavori cioè che si possono utilizzare il più possibile adottando il principio del “giusto in tempo”...>>

 

Il lavoratore, secondo il modello neoliberistico e ipercapitalistico, per poter lavorare deve adattarsi, deve essere flessibile perché è funzionale al contesto competitivo: it’s business, stupid!

 

E così, da più di un ventennio i protagonisti del mondo produttivo e politico hanno continuano ad “urlare” “Riforme!: ci vogliono riforme strutturali per la crescita e per questo bisogna rendere più flessibile il mercato del lavoro”.

 

E le Riforme ci sono state davvero: il verbo del legislatore ha cambiato proprio registro ed intonazione.

Nel nuovo contesto, la legislazione sul lavoro dei vari paesi ha dovuto subire profondi cambiamenti, convertendosi fondamentalmente al principio di ri-mercificazione del lavoro, principio in base al quale è possibile separare il lavoro dalla persona.


Ecco perché ormai si parla di “mercato del lavoro”:il lavoro come merce che si scambia su un mercato al pari di una qualsiasi altra merce.


Tra il nostro presente post-moderno e le dichiarazioni di Filadelfia si è aperta un’enorme frattura, un altro macro-spread e nel contempo si è sbizzarrita la fantasia e creatività del Legislatore: si sono moltiplicati, come i pani ed i pesci, i termini giuridici che si danno alle nuove forme di flessibilità del lavoro:

 

·         lavoro a tempo determinato;

·         di inserimento;

·         di apprendistato;

·         a tempo parziale;

·         di somministrazione dei lavoro

·         di lavoro ripartito (c.d. job sharing)

·         di lavoro a chiamata o intermittente (c.d. job on call)

·         di lavoro a progetto

·         di lavoro occasionale

·         di lavoro accessorio

·         ....ecc ecc

 

In Italia, per fare un esempio, riferendoci all’opera citata di Gallino:

<<dai primi anni novanta del secolo scorso la legislazione italiana è apparsa mossa dichiaratamente dall’intento di promuovere l’occupazione dando la priorità agli interventi che assicurano alle imprese una maggior fornitura di lavori flessibili. (…) Il nesso tra ricerca della flessibilità e ri-mercificazione del lavoro emerge quasi in ogni punto di tali provvedimenti[3]

 

Il “treno” delle riforme del lavoro marcia veloce, altre riforme sull’ “orlo del baratro” del Paese Italia sono state varate:  la riforma "Fornero", per esempio, e altre riforme si prospettano (Job- Act).

 

Mi chiedo fino a che punto può essere flessibile l’uomo prima che si spezzi del tutto?


E l’esercito dei disoccupati, dei part-time, dei sottoccupati…. avanza


Sembra proprio che ci si prenda gioco delle persone se a fronte del moltiplicarsi delle tipologie contrattuali e della flessibilità del lavoro, le possibilità di trovare o mantenere un’occupazione decente si sono drasticamente ridotte, se non quasi azzerate in molti paesi sviluppati.

 

Sono trascorsi pochi anni (1999) da quando L’ILO  (International Labour Organization)  ha redatto l’Agenda del Lavoro Dignitoso (Decent Work) in cui si affermava  che:

 

 <<La realizzazione universale del lavoro dignitoso passa attraverso il perseguimento di quattro obiettivi strategici, a cui si aggiunge l’obiettivo trasversale dell’uguaglianza di genere:

·         Creare opportunità di occupazione e remunerazione per tutti;
·         Garantire i principi e diritti fondamentali nel lavoro (libertà di associazione e diritto alla contrattazione collettiva, eliminazione del lavoro forzato e del lavoro minorile, non discriminazione in ambito lavorativo e professionale);
·         Rafforzare ed estendere la protezione sociale;
·         Promuovere il tripartismo e il dialogo sociale>.

 

Oggi invece il lavoro come merce è diventato precario, incerto e in questa condizione l’uomo vive la flessibilità come una ferita, una fonte di ansia e una diminuzione dei diritti e della propria dignità.

 

Credo che sia molto probabile che la flessibilià e precarietà, che considero oggi una delle grandi patologie del sistemo ipercapitalistico, si trasformi in una vera e propria peste sociale.

 

Il labirinto e la tela del ragno della Flessibilità - Precarietà

 


Antonello B.




[1][1] La fine del lavoro – Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato – Jeremy Rifkin (1995)
[2] Il lavoro non è merce – Contro la flessibilità – Luciano Gallino (2007)
[3] Per ricordare alcune tappe legislative della ri-mercificazione del lavoro:
Protocollo di intesa del 23/7/93; Legge 24/6/1997, n° 196; Decreto Legislativo 6/9/201 n°368; legge 30/2003 e decreto attuativo 276/2003.

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