Verso modelli
post-capitalistici
Alla ricerca di modelli
alternativi all'ipercapitalismo per una società più giusta ed equa
Diagnostica:
I
fondamentali: le grandi patologie: LA PESTE DEL XXI° SECOLO
-LA PRECARIETA’ Nei Paesi Sviluppati
del Mondo Occidentale -
“Quando tutti, in ogni
momento, sono vulnerabili e incerti su ciò che il giorno seguente può recare
con sé, sono la sopravvivenza e la sicurezza – e non una catastrofe improvvisa –
ad apparire come un’eccezione; anzi un miracolo che sfida la comprensione dei
normali esseri umani e che, per essere operato, richiede una preveggenza, una
saggezza e una potenza operativa sovrumana (...)
(..) Nella media delle società
moderne, la vulnerabilità e l’insicurezza dell’esistenza e la necessità di
perseguire attività vitali in condizioni di incertezza acute e irrimediabile
sono garantite dal fatto che queste attività vitali sono esposte alle forze di
mercato.
(Zygmunt Bauman – Vite di
scarto)
Sono
passati più di due secoli dalla “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino” (1789) ed oggi il motto “Liberté, Egalité, Fraternité
mi pare di fatto svuotato del suo significato profondo, privato di forza,
divenuto lettera morta:
·
la “Liberté” più che per l’uomo e per il cittadino si è
realizzata compiutamente per il capitale che si muove alla velocità
della luce, da una parte all’altra del pianeta in cerca di affari, profitti o rendite;
·
l’ ”Egalité”
si è frantumata, sbattendo contro l’enorme muro dell’esclusione, del
pregiudizio e della crescente disuguaglianza
economica;
·
la “Fraternité”
è rimasta rannicchiata e relegata ad ammuffire in qualche cassetto di buone
intenzioni di qualche movimento laico o
religioso e, comunque, ha fatto ben poca strada.
Giungo a queste conclusioni osservando l’e-voluzione
(o meglio in-voluzione) del mondo del lavoro nel sistema
post-moderno ipercapitalistico.
Principi
di riferimento di un mondo che fu
Senza
nessuna pretesa di poter spiegare il profondo processo di trasformazione del mondo del lavoro nell’attuale sistema
economico, politico e sociale, credo che valga la pena iniziare considerando
alcune dichiarazioni e principi che sono stati affermati nell’Occidente a
partire dalla fine della II^ guerra mondiale.
Possiamo
iniziare, ad esempo con la “Dichiarazione riguardante gli scopi e gli obbiettivi
dell’Organizzazione internazionale del lavoro”, adottata dalla Conferenza internazionale del
Lavoro di Filadelfia del maggio del
1944, in cui si riaffermavano i seguenti principi fondamentali:
<<(a) il
lavoro non è una merce;
(b) le libertà di espressione e di
associazione sono condizioni essenziali del progresso sociale;
(c) la povertà, ovunque esista, è
pericolosa per la prosperità di tutti;
(d) la lotta contro il bisogno
dev’essere continuata in ogni paese con instancabile vigore ed accompagnata da
continui e concertati contatti internazionali nei quali i rappresentanti dei lavoratori
e dei datori di lavoro, in condizione di parità con i rappresentanti
governativi, discutano liberamente e prendano decisioni di carattere
democratico nell’intento di promuovere il bene comune.>>
e aggiungeva:
(...) <<La Conferenza riconosce il
solenne impegno da parte dell’Organizzazione internazionale del Lavoro di
assecondare la messa in opera, nei vari paese del mondo, di programmi atti a
realizzare:
(a) la garanzia d’impiego e di lavoro,
nonchè l’elevazione del tenore di vita;
(b) l’impiego dei lavoratori in occupazioni
in cui essi abbiano la soddisfazione di mostrare tutta la loro abilità e
conoscenza e di contribuire per il meglio al benessere comune;
(c) la messa in opera, per raggiungere
questo scopo, con garanzie adeguate per tutti gli interessati, di possibilità
di formazione professionale e di mezzi propri a favorire il trasferimento di
lavoratori, ivi comprese le migrazioni di mano d’opera e di coloni<,
(d) la possibilità per tutti di partecipare
equamente ai benefici del progresso in materia di salari e rimunerazioni, e di
avere un minimo di salario che permetta di vivere a tutti i lavoratori.
(...omissis...)
La Conferenza afferma che i principi contenuti in questa Dichiarazione sono
pienamente applicabili a tutti i Paesi del mondo e che – mentre il modo di
applicazione deve essere determinato tenendo conto del grado di sviluppo
sociale ed economico di ciascun popolo – l’applicazione progressiva dei
sopraddetti principi ai paesi che non sono ancora indipendenti o che non hanno
ancora raqggiunto un livello che consenta di governarsi da sè, è materia che
interessa l’intero mondo civile.
…per
inciso, nei principi fondamentali della Costituzione
Italiana si afferma:
<<l’Italia è una Repubblica democratica,
fondata sul lavoro....(art .1) ...
E’ compito della Repubblica rimuovere
gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e
la uguaglianza dei cittadini, impedisocno il pieno sviluppo della persona umana
e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese (art. 3)>>
Nella
“Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo” (1948) - proclamata dall’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite, agli articoli 23, 24 e 25 - possiamo leggere:
(… omissis)
Articolo 23
1) Ogni
persona ha diritto al lavoro, alla libera scelta del suo lavoro, a
condizioni eque e soddisfacenti di lavoro e alla protezione contro la
disoccupazione;
2) Tutti hanno diritto, senza
discriminazione, ad un salario uguale per lavoro uguale;
3) Chi
lavora ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente, che assicuri a
lui ed alla sua famiglia un'esistenza conforme alla dignità umana e integrata,
se opportuno, da ogni altro mezzo di protezione sociale;
4) Ogni persona ha diritto di fondare con
altri dei sindacati e affiliarsi a dei sindacati per la difesa dei suoi
interessi.
Articolo 24
Ogni persona ha diritto al riposo e allo
svago, in particolare ad una ragionevole limitazione della durata del lavoro ed
a vacanze periodiche pagate.
Articolo 25
1)
Ogni persona ha diritto ad un livello di vita sufficiente ad assicurare la
salute e il benessere suo e della sua famiglia, specialmente per quanto
concerne l'alimentazione, l'abbigliamento, l'alloggio, le cure mediche e i
servizi sociali necessari; ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione,
di malattia, d'invalidità, di vedovanza, o negli altri casi di perdita dei
propri mezzi di sussistenza in seguito a circostanze indipendenti dalla sua
volontà (… omissis).
Sono passati più di cinquant’anni da allora, molte cose
sono profondamente cambiate e non certo in meglio, anzi...
I cambiamenti strutturali: globalizzazione e
ri-mercificaizone del lavoro
Jeremy Rifikin, nel suo saggio[1] “La Fine
del Lavoro”, individua una delle maggiori cause della prodonda trasformazione
della vita del lavoratore (quando il lavoro c’è).
Era il 1995 quando affermava:
<<Oggi, su scala globale, la
disoccupazione ha raggiunto il livello più elevato dai tempi della Grande
Depressione degli anni Trenta. Nel mondo, più di 800 milioni di persone sono disoccupate e sottoccupate. Questo numero è probabilmente destinato ad aumentare
ulteriormente negli anni che ci separano dall’inizio del nuovo millennio,
poichè milioni di individui si affacceranno per la prima volta sul mercato del
lavoro per ritrovarsi senza alcuna possibilità di occupazione e molte saranno le vittime di un’innovazione tecnologica che
sostituisce sempre più velocemente il lavoro umano con le macchine in quazi
tutti i settori dell’economia globale. (...) L’era
dell’informazione è iniziata. Negli anni che ci attendono, tecnologie software
sempre più sofisticate porteranno la nostra civiltà sempre più vicina al mito
di un mondo senza lavoratori. (...) Oggi, i tre tradizionali comparti
dell’economia - agricoltura, industria e
servizi – stanno vivendo uno spiazzamento tecnologico che spinge milioni di
persone nelle liste di disoccupazione.>>
Rifkin si era concentrato principalmente sul fattore
tecnologico e sulle nuove forme di produzione leggera e just in time come principali
cause di disoccupazione o sottoccupazione, nel frattempo altre cause si sono
aggiunte e moltiplicate per rendere più precaria la vita lavorativa e la vita delle persone in
generale.
Abbiamo avuto infatti:
· la crescente competizione su scala mondiale e la
globalizzazione con le sue delocalizzazioni produttive e global supply chains;
· la disponibilità di miliardi di persone nei paesi
emergenti a lavorare con basse tutele, e con salari che sono frazioni dei salari
medi dei “paesi sviluppati”;
· le bolle tecnologiche, immobiliari e finanziarie che
hanno contribuito non poco a rendere insostenibile i modelli di sviluppo fondati
sul dogma della crescita;
· la Grande Recessione del 2007 (e che perdura ancora
in molti paesi).
Conseguenza di ciò è che
i principi e la legislazione che abbiamo richiamato sopra sono stati
progressivamente spiazzati o neutralizzati dalle nuove regole del gioco del mercato globalizzato e dai nuovi miti, in particolare da quello
della flessibilità.
Così afferma Luciano Gallino[2]:
<<Di
là dagli argomenti di solito addotti in nome della necessità di
“modernizzare l’economia”, la
richiesta da parte delle imprese di aumentare la flessibilità del lavoro persegue due scopi principali.
Il primo è quello di ridurre il costo diretto e indiretto del lavoro,
adeguandolo il più strettamente possibile all’andamento della produzione e/o
vendite, previsto o rilevato, nel corso dell’anno, della settimana, e in certi
comparti produttivi perfino del giorno. Ciò al fine, si afferma esplicitamente
o si lascia intendere, di poter reggere alla competizione internazionale>>
Sempre Gallino, trattando della globalizzazione dei mercati e delle catene di fornitura e produzione, dice:
<<(...) Si creano così catene di commesse e
sub-commesse reticolari che possono comportare l’intervento di numerose
imprese, localizzate talora in dieci o venti paesi differenti, per ricomporre
alla fine l’unità del processo produttivo. Ciascuno dei componenti della rete,
in quanto è sottoposto al rischio di non vedersi rinnovare a breve termine una
determinata commessa o fornitura, reca un interesse oggettivo a utilizzare la
maggior quota possibile di lavoratori discontinui,
intermittenti, a tempo determinato, in affitto, con contratti di breve durata;
di lavori cioè che si possono utilizzare il più possibile adottando il
principio del “giusto in tempo”...>>
Il lavoratore, secondo il modello neoliberistico e
ipercapitalistico, per poter lavorare deve adattarsi, deve essere flessibile
perché è funzionale al contesto competitivo: it’s business, stupid!
E così, da più di un ventennio i protagonisti del mondo
produttivo e politico hanno continuano ad “urlare” “Riforme!: ci vogliono
riforme strutturali per la crescita e per questo bisogna rendere più flessibile
il mercato del lavoro”.
E le Riforme ci sono state davvero: il verbo del legislatore
ha cambiato proprio registro ed intonazione.
Nel nuovo contesto, la legislazione sul lavoro dei vari
paesi ha dovuto subire profondi cambiamenti, convertendosi fondamentalmente al principio di ri-mercificazione del lavoro, principio in base al quale è possibile separare il lavoro dalla
persona.
Ecco perché ormai si parla di “mercato del lavoro”:il
lavoro come merce che si scambia su un mercato al pari di una qualsiasi altra
merce.
Tra il nostro presente post-moderno e le dichiarazioni di Filadelfia si è aperta
un’enorme frattura, un altro macro-spread
e nel contempo si è sbizzarrita la fantasia e creatività del Legislatore: si sono
moltiplicati, come i pani ed i pesci, i termini giuridici che si danno alle nuove
forme di flessibilità del lavoro:
·
lavoro a tempo determinato;
·
di inserimento;
·
di apprendistato;
·
a tempo parziale;
·
di somministrazione dei lavoro
·
di lavoro ripartito (c.d. job sharing)
·
di lavoro a chiamata o intermittente (c.d. job on
call)
·
di lavoro a progetto
·
di lavoro occasionale
·
di lavoro accessorio
·
....ecc ecc
In Italia, per fare un esempio, riferendoci all’opera citata di Gallino:
<<dai primi anni novanta del secolo scorso la
legislazione italiana è apparsa mossa dichiaratamente dall’intento di
promuovere l’occupazione dando la priorità agli interventi che assicurano alle
imprese una maggior fornitura di lavori flessibili. (…) Il nesso tra ricerca
della flessibilità e ri-mercificazione del lavoro emerge quasi in ogni punto di
tali provvedimenti[3]
Il “treno” delle riforme del lavoro marcia veloce, altre
riforme sull’ “orlo del baratro” del Paese Italia sono state varate: la riforma "Fornero", per esempio, e altre
riforme si prospettano (Job- Act).
Mi chiedo fino a che punto può essere flessibile l’uomo
prima che si spezzi del tutto?
E l’esercito dei disoccupati, dei part-time, dei sottoccupati….
avanza…
Sembra proprio che ci si prenda gioco delle persone se a
fronte del moltiplicarsi delle tipologie contrattuali e della flessibilità del
lavoro, le possibilità di trovare o mantenere un’occupazione decente si sono
drasticamente ridotte, se non quasi azzerate in molti paesi sviluppati.
Sono trascorsi pochi anni (1999) da quando L’ILO (International Labour Organization) ha redatto l’Agenda del Lavoro Dignitoso (Decent Work) in cui si affermava
che:
<<La realizzazione universale
del lavoro dignitoso passa attraverso il perseguimento di quattro obiettivi
strategici, a cui si aggiunge l’obiettivo trasversale dell’uguaglianza di
genere:
·
Creare opportunità di occupazione e remunerazione per
tutti;
·
Garantire i principi e diritti fondamentali nel
lavoro (libertà di associazione e diritto alla contrattazione collettiva,
eliminazione del lavoro forzato e del lavoro minorile, non discriminazione in
ambito lavorativo e professionale);
·
Rafforzare ed estendere la protezione sociale;
·
Promuovere il tripartismo e il dialogo sociale>.
Oggi invece il lavoro come
merce è diventato precario, incerto e in questa condizione
l’uomo vive la flessibilità come una ferita, una fonte di ansia e una
diminuzione dei diritti e della propria dignità.
Credo che sia molto probabile che la flessibilià e
precarietà, che considero oggi una delle grandi patologie del sistemo
ipercapitalistico, si trasformi in una vera e propria peste sociale.
Il labirinto e la tela del ragno della Flessibilità - Precarietà
Antonello B.
[1][1]
La fine del lavoro – Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era
post-mercato – Jeremy Rifkin (1995)
[2] Il
lavoro non è merce – Contro la flessibilità – Luciano Gallino (2007)
[3] Per
ricordare alcune tappe legislative della ri-mercificazione del lavoro:
Protocollo di intesa del 23/7/93; Legge 24/6/1997, n°
196; Decreto Legislativo 6/9/201 n°368; legge 30/2003 e decreto attuativo
276/2003.


